Risorse per la crescita

Data di pubblicazione: 17 OTT 2017
Dalle soluzioni di welfare ai modelli di lavoro agile, questi anni sono stati caratterizzati da una grande attenzione al valore della persona per la crescita dell’azienda. Ma è davvero così?
 
Le organizzazioni sono fatte di persone ed è dalla loro alchimia che in definitiva dipendono le sorti delle aziende. Una lezione semplice, troppo spesso ignorata nel corso della crisi e che anche oggi viene forse accettata più a parole che nei fatti, secondo quanto afferma Teresina Torre, Professore associato in Organizzazione e Gestione delle Risorse Umane per il Dipartimento di Economia dell’Università di Genova.
Si parla molto in questo periodo di porre la persona al centro dell’azienda. C’è sostanza in queste parole?
Meno di quanto dovrebbe. La mia prospettiva è quella di chi osserva le dinamiche organizzative e le modalità con cui le organizzazioni gestiscono le persone e da questo punto di vista negli ultimi anni ho notato un divario enorme tra le dichiarazioni di intenti delle aziende e la loro prassi.
Tutti sono d’accordo, a parole, nel definire le risorse umane come “asset fondamentale” per la propria azienda. La realtà però va spesso in direzione diametralmente opposta. Lo stesso vale per il tema dell’organizzazione gerarchica. Tutti sembrano concordare sul fatto che sia un concetto da abbandonare, pochi hanno realmente il coraggio di farlo. 
Eppure valorizzare le risorse e allontanarsi da una struttura rigidamente gerarchica sono due passaggi fondamentali per ogni organizzazione che voglia navigare con successo nei mercati di oggi. C’è necessità di concentrarsi sui processi, ed è difficile farlo muovendosi lungo i molti gradini di una rigida gerarchia.
Perché secondo lei è così difficile tradurre le buone intenzioni teoriche in prassi consolidate?
Perché il cambiamento è difficile da accettare per chiunque. Provoca istintivamente resistenza nelle persone e quindi, di riflesso, nelle organizzazioni. L’abbiamo visto proprio negli anni della crisi: invece di cercare nuove strade, la maggior parte delle aziende è ricorsa a vecchie strategie ritenute sicure, a modelli competitivi ben conosciuti, a ciò che era noto. E invece la situazione richiedeva a gran voce di cambiare rotta, completamente, e cercare nuove soluzioni. E oggi continuare a guardare indietro a schemi considerati sicuri e affidabili perché efficaci in passato è un peccato mortale.
Per quale motivo?
Perché non stiamo vivendo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca. Vediamo una profonda evoluzione dei modelli stessi di business. La rottura con il passato è netta e rende del tutto inefficaci i vecchi schemi; continuare ad applicarli è una mossa suicida. È vero, i nuovi modelli sono ancora tutti da sperimentare, ma vanno subito messi alla prova; credo perciò che le sfide che abbiamo davanti, come ad esempio la trasformazione digitale e in generale tutto il tema dell’innovazione, vadano affrontate con decisione, radicalità e con la convinzione che porteranno risultativi positivi.
Come possiamo favorire il cambiamento?
Prima di tutto dovremmo considerare che la realtà ci sta sorpassando. I nostri giovani oggi hanno professioni che spesso nemmeno sono state ben codificate e che mettono in discussione il modo stesso in cui impostare i corsi universitari e in generale il tipo di formazione richiesto dalle aziende. Per cui prima di tutto bisogna osservare la realtà per capire in che direzione si sta muovendo; le realtà imprenditoriali più interessanti e di successo oggi non operano nei mercati tradizionali, ma ne creano di nuovi, creando forme di business inedite, a cui nessuno aveva mai pensato prima. Il loro approccio al lavoro e all’imprenditoria è diverso, il loro modo di intendere il prodotto è diverso.
Quali caratteristiche hanno?
Una cosa che spicca secondo me è il desiderio di essere protagonisti del proprio lavoro e di fare qualcosa di realmente utile, sentimento che accumuna tutti coloro che operano in queste nuove realtà imprenditoriali. E poi la valorizzazione delle nuove idee, che sono il vero motore dei nuovi business. Si cercano perciò risorse in grado di portare creatività e quindi valore all’azienda. Le persone sono viste come possibilità concreta di cambiamento e evoluzione. La risorsa umana in questi casi è posta veramente al centro, non c’è quella schizofrenia tra dichiarazioni programmatiche e prassi che citavo prima.
Le grandi multinazionali della new economy sembrano effettivamente in grado di offrire alle risorse un ambiente di lavoro stimolante e creativo. Le aziende italiane possono fare altrettanto?
Sì, ma a patto di seguire una strada diversa, anche perché non sembriamo in grado, o forse manca la volontà, di replicare il modello delle multinazionali più all’avanguardia nel campo della gestione delle risorse umane. Le grandi imprese italiane da molti anni dichiarano di adottare una politica di lavoro agile, ma il tutto si riduce per lo più a un giorno a settimana in cui si può lavorare da casa. Lo smart working però non è una questione di tempi e luoghi, ma di riappropriazione delle modalità di lavoro da parte del dipendente, e in questo senso le grandi aziende italiane non stanno facendo nulla di nuovo. Le vere politiche innovative in questo senso le stanno mettendo in campo le PMI. Modalità tanto nuove che hanno sorpassato persino il concetto stesso di smart working. L’imprenditore illuminato di una PMI oggi è quello che riesce a mettere a sistema le idee dei giovani, a radunarli attorno a sé anche studiando modalità inedite dal punto di vista contrattuale.
Da questo punto di vista, cosa si può fare di più o di diverso?
Bisogna puntare ancora di più sulla flessibilità in entrata e in uscita per il mercato del lavoro. Abbiamo ancora il mito del posto fisso, ma le ricerche ci mostrano che il lavoratore con alto livello di professionalità ha una mobilità ben superiore anche ai termini temporali dei classici contratti a termine.
Bisogna anche rendersi conto di quale rivoluzione copernicana ci sia stata negli ultimi anni. Prima si entrava in azienda e questa pensava a tutto fino alla pensione, compreso il processo formativo di acquisizione delle competenze. Questo approccio non può più funzionare, ma in molti ancora non se ne sono accorti. Il modello di oggi, quello che le aziende dovrebbero finalmente abbracciare se vogliono essere competitive, è imperniato sulla volontà del singolo di essere protagonista del proprio percorso professionale e sulla capacità dell’azienda di discutere con lui di contenuti, non solo di mera protezione contrattuale.
 
Biografia
Teresina Torre è professore associato di organizzazione aziendale presso l’Università di Genova, dove insegna Organizzazione aziendale e Gestione delle risorse umane. È coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Management presso la stessa Università. È vicepresidente di ASSIOA - Associazione Italiana di Organizzazione Aziendale. E’ co-direttore della Rivista Impresa Progetto - Electronic Journal of Management. È presidente del Master in Gestione Strategica, Finanza ed Internazionalizzazione delle Imprese, in collaborazione con l’Università Sedes Sapientiae (Lima). 
La sua attività di ricerca più recente si concentra sui temi del cambiamento nel lavoro e nella gestione delle risorse umane, nel cui ambito è autrice di numerose pubblicazioni anche internazionali. È referente per l’Italia del Progetto HRM Digital Lab.