di Rita Querzè
Articolo apparso su Corriere della sera.it - La 27a ora il 29-5-2014
È sciopero. Sciopero della maternità e della paternità. Niente figli: ecco l’uscita d’emergenza dal tunnel della crisi. Il tasso di natalità in Italia ha cominciato a scendere nel 2008. L’anno di Lehman. E oggi? Sul fronte dell’occupazione le donne hanno retto meglio degli uomini. Complice la loro disponibilità a contratti flessibili e il fatto che la crisi ha colpito di più i settori maschili (manifatturiero, in particolare). Nel 2008 il tasso di disoccupazione femminile toccava l’8,5% e quello maschile era al 5,5: tre punti di differenza. Oggi
il divario è sceso al 2% (tasso di disoccupazione maschile al 12,9%, 13,8% quella femminile). Sarà che con la crisi le famiglie non possono permettersi il rischio di legare tutte le entrate a un unico stipendio. Fatto sta che
le donne hanno aumentato la loro partecipazione al mercato del lavoro. Dal 2008 a oggi il tasso di attività femminile è passato dal 51,6 al 54,2%. Non è un granché rispetto a ciò che chiede l’Europa, ma è comunque un passo avanti.
Il problema è che il sogno della conciliazione famiglia-lavoro è sfumato proprio quando pareva a portata di mano.
Negli anni 2000 il tasso di natalità nel Nord italia cresceva insieme all’occupazione femminile. Con la crisi questa correlazione positiva si è spezzata. Quanto il tema sia démodé è dimostrato anche dalla marcia indietro dell’Ue sul 2014 come anno europeo della conciliazione. E allora che si fa? Il welfare pubblico ha sempre meno soldi da investire in servizi e asili. Così le aziende restano sole con i loro dipendenti a cercare soluzioni che tengano insieme tutto: la competizione su mercati sempre più difficili e la gestione delle famiglie.
Un’indagine condotta da Astraricerche per Manageritalia, associazione dei dirigenti dei servizi, su un campione di 640 dirigenti del settore privato dice che
la maternità in azienda è ancora penalizzante. L’83% dei manager è convinto che la maternità di una collaboratrice sia un problema. Non manca l’autocritica, però: il 63% afferma che le difficoltà sarebbero superabili se l’azienda si organizzasse meglio.
«L’incidenza della maternità sul totale dei costi personale delle aziende è pari a un misero 0,23% — spiega Simona Cuomo dell’osservatorio su Diversity management della Sda Bocconi —. Oggi notiamo che l’avere figli diventa penalizzante sul fronte della carriera sia per gli uomini che per le donne. Il dipendente ideale per molti è un giovane maschio senza impegni di famiglia».
Le politiche di welfare aziendale costano. Le aziende in difficoltà spesso chiudono gli asili interni che avevano aperto quando gli affari giravano. E anche i cambi di mentalità e di organizzazione sono più semplici nei periodi di vacche grasse. Nonostante tutto, però,
c’è chi sperimenta soluzioni. Qualche esempio tratto dalla banca dati della contrattazione della Cisl Lombardia.
Alla Roche è stato chiuso un accordo sindacale che garantisce
100 euro al mese a chi ha un figlio iscritto al nido. La Agusta di Varese nel 2013 ha firmato
convenzioni con nidi e scuole per l’infanzia. La Lubiam ha introdotto
elasticità nella concessione del part time e più flessibilità nell’orario di lavoro; la Corneliani concede il
part time fino ai 2 anni del figlio; la
Whirlpool dà buoni di 80 euro quando i dipendenti diventano mamma e papà. Una strada presa soprattutto dalle imprese dei servizi del Nord (Siemens, Sanofi, Microsoft, Vodafone…) è quella del cosiddetto lavoro agile: offrire ai dipendenti la libertà di lavorare a casa o in ufficio, e con orari flessibili. Poi si valutano i risultati.
In tutto questo, però, non va dimenticato che una fetta sempre più ampia di giovani donne si trova alle prese con
stage, praticantato o forme di lavoro che non garantiscono tutele sulla maternità.
«Ormai la maternità piena garantita dal lavoro dipendente riguarda il 40% delle donne. Servirebbe una garanzia minima universale. Per tutti», dice la sociologa Anna Ponzellini del gruppo maternità/paternità.
Certo, poi si tratterebbe di capire dove prendere le risorse. Ma il problema esiste. Anche se tra le lavoratrici non dipendenti c’è chi chiede meno tutele in maternità: «Anche le
partite Iva oggi hanno diritto a
cinque mesi di maternità pagati all’80%. È un bene. Il problema è che la legge obbliga a sospendere del tutto il lavoro in questo periodo di tempo. E
nessuno si può permettere di rimanere tagliato fuori così a lungo», fa presente Anna Soru, presidente di Acta, l’associazione dei consulenti del terziario avanzato.
Drammi di una generazione senza lavoro. O meglio, senza lavoro né figli. Perché mai come oggi occupazione e maternità sembrano due facce della stessa medaglia.